La natura correttiva dei mercati azionari internazionali non solo si conferma ma estende la negatività da inizio anno, aggiornando i drawdown (discesa dai massimi) che già erano particolarmente pesanti.

Se consideriamo, infatti, i nuovi minimi raggiunti dai principali indici di borsa, la definizione (almeno tecnica) di ‘mercato orso’ fa ormai capolino senza più nascondersi. S&P 500 ed MSCI World, infatti, toccano passivi ormai che sfiorano il -25% dai top, ma il Nasdaq ‘batte’ tutti con una correzione di quasi 35 punti percentuali. Il circolo vizioso del pessimismo si sta quindi impadronendo dei mercati: facendo leva sulla concomitanza di elementi negativi nel periodo, il movimento al ribasso guadagna forza, lasciando sempre meno spazi ai rimbalzi che, ogni volta di più, diventano più brevi e meno intensi. E’ il caso dell’ultima risalita dell’indice S&P 500 che, recuperata quasi area 4.200 (nei primi giorni di giugno) ha visto poi una sequenza ribassista molto intensa (-13%) in pochissime sedute. E dopo il -5% della settimana scorsa, Wall Street ha infatti bissato il risultato, incapace di resistere alla pressione ribassista e alle vendite degli investitori.

Il peggioramento del sentiment è un mix di fattori, di diversa natura, che insieme sembrano, per il momento, dare poco scampo ai mercati. Fautrici dei rialzi degli anni scorsi grazie alle grandi iniezioni di liquidità e alle politiche accomodanti, le banche centrali ora hanno messo al primo posto il raggiungimento di obiettivi macro ben precisi (il contenimento dell’inflazione) anche a scapito di danneggiare la crescita economica. Il rialzo dei tassi (e la fine degli acquisti di asset) sta determinando un calo della ricchezza finanziaria, che, pur non essendo un obiettivo esplicito va comunque nella direzione auspicata da Powell: frenare la domanda in modo che possa essere più compatibile con le attuali dinamiche dell’offerta, ove ancora persistono difficoltà nel ripristinare un equilibrio che sgonfi la crescita dei prezzi. Insomma, dopo aver faticato, per anni, di raggiungere il target del 2%, ora vi è il problema opposto, ma sempre con una Fed che arranca nelle sue strategie, rischiando di mancare di efficacia verso i mercati.

Dopo la recente uscita dei dati di inflazione da record, la Banca centrale americana, ha deciso per un intervento quasi shock (0,75% di aumento dei tassi) anche se comunque il mercato aveva già prezzato la misura. Il presidente Powell ha accompagnato la decisione con l’illustrazione dei prossimi step, con una Fed ancora data-dependent, per nulla intimorita ormai dai segni meno delle borse e che non vede, per il momento, segnali di indebolimento della forza economica e della crescita. Non sembrano essere però così d’accordo i mercati: se il repricing dei multipli ha inciso molto nei primi mesi dell’anno, ora le tematiche di possibile recessione, con effetto sugli utili aziendali, cominciano ad essere sempre più presenti negli scenari disegnati dagli investitori.

Lo si vede, come detto, nelle performance delle borse: un altro -5%/-6% per S&P 500 e Nasdaq, su nuovi minimi, -4,5% per l’Europa così come per il basket dei paesi emergenti. Le borse USA, analizzate come indici guida, stanno ritracciando verso le trend di rialzo nate nel 2009, di fatto annullando gran parte del rialzo post Covid. L’ampiezza del ribasso, in termini di partecipazione settoriale è in aumento, basti pensare al -15% settimanale del settore Energy e del -8% dei Materials e Utilities. Ma sull’ampiezza prospettica del ribasso conteranno, come sempre, l’evoluzione dei dati macro, con l’inflazione già sotto osservazione ma con un occhio ormai anche agli sviluppi in termini occupazionali. La tenuta dei consumi è agganciata a questi ultimi, da cui poi le ovvie derivazioni in termini di utili aziendali. Per chiudere, indice Vix che si ripresenta sopra quota 30, ma senza ancora spyke ‘spericolati’ (>35/40).

In ambito materie prime, deciso crollo per il paniere generale (-6,4%), appesantito alla flessione record della sua componente principe, ossia quella energy (petrolio -9% a 109$ e gas -21%). Sulle materie prime inizia ad aleggiare l’ombra della recessione, che colpisce infatti anche i metalli industriali (rame -6%, alluminio -7%). Negative anche le agricole, mentre l’oro fatica ancora (-1,7%).

Dopo la riunione della Banca Centrale Europea della scorsa settimana, il palcoscenico dei mercati toccava alla Federal Reserve, con l’atteso FOMC di giugno. Powell si è trovato subito con la problematica del salto imprevisto dell’inflazione di maggio (8,6% vs 8,3% atteso), non solo in fase di picco ma addirittura in risalita. Un dato che aveva provocato la debacle degli indici azionari nella precedente ottava, unitamente all’accelerazione impressa anche dalla BCE nella propria politica monetaria. Dopo l’uscita di quei dati sull’inflazione USA (esacerbati dal forte upside dei prezzi dell’energia, dei beni alimentari e del comparto immobiliare), il mercato aveva già incorporato un intervento da 75 punti base mentre prima si ragionava su un gradino di ‘soli’ 50 bps. Incontrate, quindi, le attese di mercato, con un solo votante del FOMC che si era espresso per una mossa meno invasiva. Nel complesso il messaggio della FED era stato comunque già prezzato dal mercato (da qui la prima reazione positiva), anche se poi la rilettura dei commenti del presidente Powell sono stati non troppo amichevoli, tanto da provocare un altro sell-off nella giornata di giovedì, con gli indici azionari caduti su nuovi minimi e con i rendimenti dei titoli di stato in ascesa.

E’ comunque indiscutibile che la banca centrale americana sia alla ricerca di una autorevolezza che era stata in parte perduta tra la seconda parte del 2021 e l’inizio del 2022, quando la pressione sui tassi a lungo era simile a quella di una pentola a pressione, pronta a rivelare che la Fed era estremamente in ritardo nel gestire le problematiche legate all’inflazione. Il costo del denaro passa quindi nel range 1,5%-1,75%, in un percorso che dovrà continuare per tutto il 2022 e anche oltre e che sarà accompagnato ormai non solo dal non reinvestimento dei titoli in scadenza ma anche dal prossimo dimagrimento del proprio bilancio. Un elemento che il mercato dovrà affrontare ma che ha già iniziato a scontare perché già annunciato.

Gli aspetti del messaggio di Powell che hanno inquietato i mercati sono relativi all’inflazione: qui l’inversione a “U” è totale: il presidente della Fed non si aspetta neppure più che scenda verso gli obiettivi prefissati ma anzi, vi sono possibilità di ulteriori recrudescenze, visto il procedere del conflitto in Ucraina e viste, soprattutto, le dinamiche che investono i salari da un parte ed il comparto immobiliare dall’altro. Valori previsti nei prossimi anni: dopo il 5,2% per il 2022 (era 4,3% a marzo), 2,6% nel 2023 e 2,2% nel 2024. Per normalizzare questo contesto servono tassi da portare per fine anno al 3,25%-3,50% (e nel 2023 al 3,5%-3,75%): non c’è che dire, una accelerazione monstre che riporta i valori al 2008. Solo nel 2024 si avrebbe l’inizio del calo da questo processo di stretta monetaria. Quanto alla crescita, essa rimane positiva ma in contrazione (PIL +1,7% per il prossimo biennio) mentre la disoccupazione viene vista in risalita fino al 4% nel 2024. Servirà attenzione nel non scivolare in recessione e al contempo moderare la domanda.

Solo in parte la BCE ha rubato la scena alla FED: Francoforte ha indetto un meeting d’emergenza per dare maggiori indicazioni sulla protezione da dare ai paesi dove gli spread sono più marcati. Poca sostanza però nei fatti: l’elemento più interessante è la flessibilità nel reinvestire i bond in scadenza secondo criteri legati alle condizioni di mercato. Il risultato è stato comunque quello di frenare quanto meno la corsa dello spread (BTP e Bund decennali rispettivamente al 3,6% e 1,66%), sebbene le tendenze siano ancora in uptrend, come pure per il Treasury americano (yield 10Y a 3,23%). Salgono ancora anche i tassi a breve, riflesso delle politiche restrittive in fase di adozione. In caduta libera il corporate, sia IG che high yield: il netto aumento degli spread di credito prefigura debolezza economica in arrivo.

Per quanto riguarda le valute, il cross EUR/USD ha ‘ballato’ tra 1,04/1,06, tenendo i minimi ma senza un segnale di upside di recupero per l’ Euro. Il quale ha avuto andamenti diversi verso altri cross: in guadagno verso le commodity value (AUD/NOK/CAD), in calo verso il Franco Svizzero (sospinto dal rialzo tassi da 0,50% deciso a sorpresa dalla banca centrale). In crollo le criptovalute (Bitcoin -29%).

Fonte: ufficio studi Consultique SpA

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