L’ottava appena conclusa ha portato ad una ulteriore fase di indebolimento degli indici azionari internazionali, con le borse ancora sofferenti. La fase ‘bullish’ dei mercati vista da metà giugno è stata sostanzialmente archiviata a Ferragosto, momento in cui le borse hanno prima iniziato a rifiatare dopo il rally rialzista e, successivamente, sono state messe completamente ko dopo il simposio di Jackson Hole.
Un meeting indigesto che è coinciso con un peggioramento sul sentiment economico, un difficile momento in ambito energetico in Europa ed è stato poi appesantito dalla generale sensazione che la problematica dell’inflazione non sia così di immediata soluzione come si poteva prospettare. Un elemento che Powell ha rimarcato nel suo discorso e che le borse hanno iniziato a digerire ma con fatica e disillusione: la seconda metà di agosto ha portato infatti l’MSCI World a perdere quasi l’8% e con le borse USA in rapido declino, soprattutto per il settore tecnologico (S&P 500 -8% e Nasdaq -10%). Un modo brusco per portare i mercati ad una view più realistica, con gli investitori accompagnati da dubbi su economia e banche centrali: MSCI World, ytd, torna a -18%.
L’indice S&P 500, dopo l’illusorio rimbalzo che ha portato le quotazioni in area 4.300 ha rapidamente perso quota, scendendo anche sotto i 4.000 punti e trovando supporto solo nel finale di settimana sugli importantissimi livelli a 3.900/3.930. Se il rimbalzo ha portato l’indice americano su una soglia tecnica rilevante (passa su quel punto la dinamica ribassista che guida la discesa del 2022), i supporti indicati sono immediatamente precedenti a quello che potrebbe essere un probabile retest dei minimi visti a giugno (area 3.650-3.700). Un rivisitazione di quei livelli arriverebbe probabilmente con una Fed ancora determinata a combattere l’inflazione con tassi e QT, più di quanto i mercati possano tollerare, come dimostrato nelle ultime settimane. Il ‘worst case’ (indice sotto a quei livelli di minimo) sarebbe coerente invece con una fase smaccatamente recessiva dell’economia USA, con un rapido e intenso declino anche degli utili aziendali.
Ed è sui dati macro e su quelli degli utili che si gioca l’altra partita: la FED può riuscire nel suo intento di domare l’inflazione senza invertire il ciclo economico e quello degli eps societari? La fase recente ha mostrato investitori nervosi nel vedere dati macro positivi (che incoraggerebbero la Fed nel suo percorso restrittivo) ma che fanno ancora affidamento alla tenuta degli utili dopo gli ultimi quarter. Risulta quindi ancora prematuro ipotizzare scenari futuri con una certa visibilità, considerando i diversi fattori in movimento e tra di loro correlati.
In questo contesto le borse hanno avuto performance settimanali negative (S&P 500 -3%, Nasdaq -4%, Europa -2,3%), con chiusure che potevano essere superiori ai minimi (grazie al classico il buy the dip e al contesto di ipervenduto), ma Wall Street ha poi subito la decisione di Gazprom sul gas, news che ha riportato gli indici in negativo. Deboli sia gli indici sviluppati sia quelli emergenti, con poche eccezioni. Tra i settori, particolarmente penalizzati quelli legati alle commodities (Materials ed Energy) e i tecnologici mentre hanno tenuto di più i difensivi (Utilities e Staples). Tra i temi di investimento pochi segni più (uranio), male invece nicche tech e miners/commodity sectors.
La necessaria terapia d’urto che la Federal Reserve ha ‘programmato’ per portare l’inflazione su livelli più contenuti (e al di sotto dei tassi ufficiali) è un’operazione difficile: mai prima d’ora vi era stato infatti un gap così elevato tra il livello del costo della vita ed il tasso FED. In qualche maniera queste due misure si dovranno incontrare nei prossimi trimestri, il punto è come e dove; un altro è con che conseguenze per indici ed economia. Powell, nell’ultimo suo discorso è stato, netto e quasi cattivamente ‘hawkish’, forse per portarsi ‘avanti’ col lavoro ed essere più accomodante in futuro: non ci saranno pause, non ha senso parlare di tagli nel 2023, con ogni probabilità sarà doloroso per l’economia e l’azione sarà simile a quella che affrontò Paul Volcker agli inizi degli anni ’80 per domare l’inflazione da crisi petrolifera. Come nota storica: in quel frangente la Fed riuscì nel suo intento causando le recessioni del 1980 e 1982, con gli indici che anticiparono (-33%) il calo degli utili successivo (in discesa di circa il 25%).
I mercati hanno preso atto della volontà ferrea della Fed di considerare l’inflazione come primo obiettivo (una sorta di ‘whatever it takes’ in stile US), a discapito delle condizioni economiche. Per il meeting di settembre le stime vedono un 60% di un rialzo dei tassi da 0,75%, con invece un 40% di un più modesto 0,50%. Per i mesi successivi il processo continuerebbe (+50 bps e +25 bps nei meeting di novembre e dicembre) fino a giungere ad un top nella prima parte del 2023 in area 3,75% con l’idea che per quel momento l’inflazione sia già in fase calante. Un elemento di anticipazione arriverà il 13 settembre con il rilascio dei nuovi dati sui prezzi al consumo: una conferma di quanto visto ad agosto potrebbe confermare il peaking dell’inflazione. Intanto il mercato del lavoro venerdì è uscito stabile, dando spazio al rimbalzo (momentaneo) delle borse.
Per quanto riguarda invece l’Europa l’emergenza legata all’energia si fa sentire nei dati in fase di rilascio nei diversi paesi. Una problematica diversa da quella degli Stati Uniti (dove è l’economia ad essere surriscaldata) visto che gli ISM europei manifestano già da tempo velleità recessive. Tuttavia la BCE non può restare con le mani in mano e per settembre si è passati rapidamente da ipotesi di rialzo da 0,25% ad altre che stimano anche uno 0,75%. In tutto il mondo, le pressioni delle banche centrali portano su i rendimenti free risk: il decennale americano ha varcato la soglia del 3% (close a 3,20%) mentre il due anni è volato fino al 3,50%. In Europa il Bund 10Y ha superato l’1,50% mentre il BTP pari scadenza ha ritoccato il 4%. Nota interessante: dopo la news di Gazprom sono i rendimenti sono calati, i timori economici hanno quindi prevalso. Cala quindi tutto il segmento obbligazionario, con passivi che nel 2022 restano da record per l’asset class.
Per quanto riguarda materie prime e valute, le tendenze della scorsa settimana si sono confermate con commodities piuttosto deboli. Il rialzo dei tassi reali ha penalizzato l’oro (-1,5%) tornato appena quota 1.700 mentre il petrolio solo nel finale d’ottava ha chiuso debole (87$) per via dei timori sulla domanda. Per gli stessi motivi, molto negativo il saldo delle materie prime industriali (-8%). L’Euro ha tentato il ritorno sopra la parità rispetto al Dollaro USA ma con scarso successo. La valuta del Vecchio Continente in realtà è risultata invece molto tonica rispetto alla generalità dei cross.
Fonte: ufficio studi Consultique SpA