L’appuntamento clou della settimana è stato ovviamente il rilascio dei dati di inflazione americana relativi al mese di ottobre.

Un dato fortemente atteso dagli operatori perché l’ondata inflattiva è stato un fattore dominante del 2022, amplificato certamente dal contesto bellico nell’Europa dell’Est tra Russia e Ucraina ma in realtà parte di un processo che era partito già nel 2021 con il lancio dei piani vaccinali anti-Covid dopo i lockdown generalizzati. Il tono crescente e minaccioso dei prezzi (industriali e al consumo) ha ripresentato scenari macro che non si vedevano dai primi anni ’70 e ’80, con gli operatori finanziari che hanno vissuto in un mondo deflattivo dal post crisi Lehman Brothers. Uno scenario quello del 2022 dove le banche centrali hanno intrapreso una lotta senza quartiere al caro prezzi, con in particolare Powell, capo della Fed, intenzionato a non trovarsi in spirali incontrollabili. E’, quindi, comprensibile che l’uscita di un nuovo dato in discesa e ben al di sotto delle attese del dato del CPI americano (sia in versione annuale che mensile) venisse salutata dal mercato con movimenti ampi in tutte le asset class, quasi a segnalare un elemento di totale svolta rispetto a quanto visto in questo 2022 poco felice per gli investitori. A livello intermarket, infatti, salgono a rotta di collo gli indici azionari, protagonisti nella giornata di giovedì di una riscossa da record, aiutati anche dal forte declino dei tassi di interesse. Prematuro dire che la strada sia in totale discesa per i mercati ma certamente rappresenta un primo elemento di distensione.

Il bottino settimanale dell’indice MSCI World (paniere globale) è stato del +6,7%, un risultato che porta la discesa da inizio anno ad un -16% circa: si resta, insomma, in negativo, ma con un passivo un po' più clemente. Top performance nell’ottava per le borse USA, superate solo dall’indice cinese Hang Seng, con l’S&P 500 in progresso del 6% ed il Nasdaq 100 di quasi il 9%. Recuperi record che nascondono però un andamento settimanale anche altalenante, visto che la borsa americana (S&P) si era pericolosamente riavvicinata a quota 3.700, condizionata negativamente dalla deflagrazione del mondo cripto, dove si è scatenato un vero e proprio panico da liquidazione delle posizioni. Il dato delle 14:30 di giovedì sull’inflazione USA ha portato però nuovamente il sereno: le attese erano per un +7,9% (anno su anno) ed è uscito un +7,7% e, in parallelo, anche sulle variazioni mensili (+0,4% vs +0,6%). Un vero e proprio shock per i mercati che speravano in bene ma che si sono ritrovati in un contesto dove molti investitori hanno ritrovato fiducia e migliori prospettive per i prossimi mesi. Una discesa confermata dell’inflazione, con tanto di picco ormai raggiunto, permette di ragionare su tassi strutturalmente più bassi e una Fed (forse) meno ostile. I segnali di disinflazione stanno insomma maturando, confermando il contestuale calo dell’attività economica (in primis l’housing markets). Da un punto di vista tecnico, si conferma la creazione di un’area di supporto fondamentale (tra 3.500 e 3.700 punti) che sta facendo da trampolino per una continuazione del recupero: gli obiettivi di breve e medio termine si attestano nella visuale fino ad area 4.050-4.100. Nelle prossime settimane, i mercati smaltiranno la sbornia del gustoso drink CPI e si metteranno a ragionare sugli utili aziendali, l’altra variabile che determina i corsi azionari.

La positività vista sui mercati USA ha contagiato anche gli altri listini: l’Europa vede incrementi medi del 4%-5%, anche se poi listini difensivi come UK hanno sottoperformato. Ottimo il rimbalzo della Cina, anche se il saldo annuale rimane pesante (circa -26%, come il Nasdaq). A livello settoriale, unico settore in rosso l’Energy mentre sul podio troviamo i Tecnologici (+11%) e Materials (+10%), quest’ultimo supportato anche dai segni più sule materie prime. I difensivi tutti positivi sebbene con guadagni più risicati rispetto ai titoli ad alta crescita. Forte upside, tra i temi per Miners, Idrogeno e altri temi tech caduti nel corso dell’anno. Volatilità ancora in calo (22), a conferma della maggiore distensione sul mercato.

Sono ben noti i segni meno del mercato dei bond registrati nell’anno, con nessun segmento immune allo tsunami legato al rialzo dei tassi di interesse. Saltuari sono stati i recuperi visti negli scorsi mesi, specie quando all’orizzonte si sono profilati o scenari recessivi (smentiti però dai dati macro usciti in progressione) o ipotesi/speranze di un profilo della Federal Reserve meno aggressiva rispetto a quanto stimato. Su questo punto però, il Presidente della Fed Powell ha sempre svolto il ruolo di pompiere degli entusiasmi (o di Grinch dei mercati finanziari, secondo alcuni commentatori). Questo perché la Fed, forse memore e conscia di alcuni errori decisionali e di comunicazione del 2021, ha preferito mantenere la barra dritta circa la necessità di mantenere un atteggiamento restrittivo sulla politica monetaria. Le posizioni di Powell viste recentemente (proprio nell’ultimo meeting Fed) rappresentano la variabile più importante per il mercato dei bond. Per questo motivo, i dati di inflazione visti in settimana hanno alimentato le potenziali prospettive di una Fed potenzialmente meno aggressiva: la curva dei tassi implicita ha visto ‘prezzare’ un intervento da 50 basis point a dicembre (senza ipotesi di altri aumenti jumbo da 75 bps) e un terminal rate che dai 5,10% a maggio è sceso al 4,85%. Tutta la curva USA si è insomma mossa al ribasso di 20-25 bps, con riduzioni anche di un valore maggiore nel segmento mediano 3-5 anni. Il processo di riprezzamento degli scenari sembra poter essere quindi ad un punto di svolta per l’obbligazionario, dopo un anno particolarmente ostico, con discese medie del 15% anche per le scadenze medie. Se per l’equity d’ora in poi diventerà chiave la dinamica degli utili in ottica di multipli, per l’obbligazionario l’aver delineato un possibile cap ai tassi (almeno per la Fed, la BCE ha probabilmente altri problemi) potrebbe aver avvicinato le tempistiche per un bottom.

Sui dati di mercato si è osservato un decennale americano che dopo aver volato nella settimana precedente sopra il 4% ha poi ripiegato di buona lena, tornando addirittura a quota 3,85%. La chiusura del mercato obbligazionario di venerdì per il Veterans Day ha ‘freezato’ il dato di chiusura settimanale mentre nella zona Euro si è assistito a movimenti più articolati. Il Bund con scadenza decennale ha ritracciato nuovamente in area 2% per poi risalire nella giornata di venerdì (close 2,16%): a pesare il dato sulla inflazione in Germania che, diversamente dagli Stati Uniti, in ottobre ha accelerato, toccando il +0,9% a livello mensile e il +10,4% a livello annualizzato. L’ondata inflazionistica deriva non solo dalla componente energia, ma anche dalla salita dei prezzi di molti altri beni (specie alimentari) e servizi. Questo fa pensare che la possibile svolta vista nei dati macroeconomici US non sia proprio così vicina nell’Eurozona, con dati decisamente più preoccupanti e un gap tra tassi e inflazione molto più marcato. Anche per i BTP, identico percorso: discesa fino al 4% post rilascio dei dati US e poi nuova risalita fino al 4,21%. In ogni caso, i saldi settimanali finali per l’obbligazionario sono positivi, coinvolgendo tanto l’ambito governativo che quello corporate.

In ambito materie prime, settimana contrastata per l’indice generale consolida i guadagni della scorsa settimana. Tra le componenti più positive quella dei metalli preziosi con il recupero dell’oro, galvanizzato dal contesto settimanale e che torna sopra quota 1.770 (+5%). Segni più anche per i metalli industriali (Nickel +13%). Più incerto il petrolio che consolida però sui guadagni della scorsa ottava e chiede poco sotto quota 90$ al barile. In ambito valutario, volatilità sul cross.

Fonte: ufficio studi Consultique SpA

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