Che questo 2022 fosse estremamente complicato per gli investimenti è apparso chiaro già dalle prime settimane dell’anno, quando il (primo) rapido aumento dei tassi negli USA aveva fatto precipitare le quotazioni dei titoli tech.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la completa inversione delle banche centrali verso politiche monetarie sempre più restrittive per contrastare l’inflazione, i timori di una recessione: nulla sembra mancare per un anno dove poche asset class sono state capaci di resistere. E l’ultima settimana è risultata essere particolarmente importante per la nuova svolta per i mercati, le cui speranze di recupero maturate recentemente si sono dissolte come neve al sole dopo il rilascio dei dati di inflazione negli USA. Dati che richiedono giocoforza banche centrali ancora molto determinate nei loro intenti. Il downtrend delle borse è infatti ripreso con forza (indice globale MSCI World -4,2%, -19% da inizio anno) a partire da quelle USA, riportando gli indici su livelli pericolosi e palesando un sentiment nuovamente in peggioramento.

L’umore degli investitori è precipitato in particolare perché il dato di inflazione USA uscito (8,3%) è risultato in riduzione rispetto al precedente (8,5%) ma oltre le attese di mercato (8,1%). Con la riduzione nelle materie prime energetiche (ma anche di altre commodities) il mercato stimava valori in raffreddamento e tali da avvalorare una discesa netta dal picco del costo della vita raggiunto a giugno (9,1%). In realtà, dal segmento alimentare e da quello relativo agli affitti sono arrivate conferme di componenti ancora piuttosto toniche, così come sul fronte degli stipendi. Come già evidenziato, la discesa dei valori è un bene ma insufficiente da solo: serve, infatti, un calo più ampio perché l’attestarsi su valori persistentemente alti resta un problema per la Fed e per l’economia. La banca centrale americana, infatti, non vuole commettere (altri) ‘policy errors’: vanno evitate pericolose prese sottogamba del problema così come pause intempestive.

Il martedì nero di Wall Street ha cancellato tutti i guadagni ottenuti nel breve: l’S&P 500 nel rimbalzo dai sostegni aveva toccato area 4.150, facendo registrare però un altro massimo decrescente. È ormai il leitmotiv del 2022, con una cadenza di notizie negative che mantengono il mercato in un downtrend strutturale e con rimbalzi solo effimeri. Le quotazioni (dopo un -4,7% settimanale) si sono riportate sui supporti in area 3.900, primo step di una serie di supporti tecnici che se violati, riporterebbero gli indici verso un retest dei minimi di giugno (area 3.650-3.700). Le quotazioni vengono impattate negativamente non solo dai tassi, in fase crescente, che deprimono i multipli ma anche dalla ormai costante revisione al ribasso degli outlook aziendali (in settimana è stato il caso di Fedex, che evidenzia un degradamento del contesto macroeconomico). Rispetto alla prima parte dell’anno, ora gli indici hanno un altro elemento a cui far fronte.

Le altre borse USA hanno seguito un tracciato simile: il Nasdaq 100 (-5,8%) appena sotto i 12.000 punti, appesantito dai passivi delle grandi capitalizzazioni, in cui le revisioni degli utili è più evidente. L’indice Vix, quasi sorprendentemente, non sfonda però al rialzo, rimanendo su livelli sostenuti (25) ma ben inferiori a quelli di inizio anno: manca insomma ancora il panico. Meglio l’Europa, grazie ad una composizione più value che limita i danni con un -2%, e addirittura positivo il FTSEMib grazie ai bancari, sostenuti dalle decisioni sui tassi della BCE. Tra i settori nessun segno più: una moderata resistenza è stata opposta dal segmento energy (-2,2%) e finanziario (-2,6%), con i titoli ad alto dividendo maggiormente resilienti. Tra i temi di investimenti sottoperformance per tutte le nicchie della tecnologia (tra -6% e -7%).

Se Atene (l’azionario) piange…Sparta (l’obbligazionario) non ride certamente. Il 2022 si avvia ad essere uno dei peggiori anni per i bond, con flessioni pesantissime praticamente su tutti i segmenti di mercato. Se i titoli governativi da inizio anno evidenziano passivi moderati (attorno al -3%/-4%), le scadenze medie sono già a doppia cifra (quasi -15%), mentre quelle lunghe hanno drawdown simili a quelle dell’azionario (-25%). Il panorama sul fronte corporate è altrettanto desolante: investment grade e high yield vedono i panieri di investimento tra il -10% ed -15%, indeboliti sia dall’aumento dei tassi di interesse, sia dallo spread di credito che si è progressivamente allargato per i timori di recessione a livello internazionale. L’azione delle banche centrali, sempre più radicali nelle loro scelte di politica monetaria e di dimagrimento dei propri bilanci, lascia poco scampo in ambito obbligazionario, almeno fintanto che non vi sarà una inversione dell’approccio. Il cosiddetto ‘pivot’ della Fed, però, non appare imminente: l’inflazione è ancora troppo alta e non permette distrazioni.

La settimana entrante è chiaramente incentrata sulle decisioni della Federal Reserve nel suo meeting periodico. L’appuntamento è ovviamente molto atteso ed il mercato si aspetta un intervento certo da 0,75%, con residue possibilità (20%) di una mossa più pesante di 100 bps. Dopo i dati di inflazione tutta la parte a breve, più legata alla politica monetaria, si è spostata verso l’alto: il plateau dei tassi è sempre visto nella prima parte del 2023, con un terminale rate in area 4,25%-4,50%. Dando per scontato lo 0,75% di questa settimana, mancano all’appello ancora altri aumenti dei tassi da realizzare nei prossimi mesi: come dimostrato nel 2022, ovviamente tante cose possono modificare questo schema implicito nelle quotazioni. E nella prima parte del 2023 inizierebbero, secondo il mercato, i tagli dei tassi da parte della Fed, che con un altro ‘pivot’ inizierebbe a ridare fiato alla liquidità dopo aver ‘sconfitto’ l’inflazione (che, nelle aspettative ad un anno, sono al 2,3%). Il risultato è una curva sempre più invertita che viaggia verso i ‘record’ delle recessioni del 1990, 2001 e 2008).

I tassi di mercato vedono un decennale USA ancora in fase crescente, sui top dell’anno in area 3,50%: è da vedere se l’area opporrà qualche resistenza oppure se si dirigerà verso i successivi obiettivi a 3,75% e 4%, livelli già raggiunti dalle scadenze brevi a due anni. In fase di picco anche il decennale tedesco, tornato ai livelli di massimo dell’anno a quota 1,75%-1,80%. Il posizionamento aggressivo della BCE, che sta imitando i passi della FED, induce anche qui a pensare ad una curva che si alzerà nei rendimenti. I tassi di mercato ipotizzano un intervento di Christine Lagarde di altri 75 bps nel meeting di ottobre, sempre al fine di contrastare l’inflazione della zona Euro. Il dato relativo all’Italia è stato di un 9,1% annuo, leggermente superiore al 9% stimato. Rispetto agli USA, probabilmente si dovrà attendere di più per vedere nell’Eurozona qualche segnale di decremento, in considerazione delle pesanti ripercussioni del caro energia su consumatori e imprese. Tra gli altri segmenti obbligazionari, la settimana è stata particolarmente dura, oltre che per i governativi, anche per il corporate: l’investment grade indebolito dall’aumento dei tassi, l’high yield dal nuovo peggioramento dell’outlook economico futuro.

Le materie prime vedono un paniere generale in calo di circa l’1,5%: negativi petrolio, oro e stavolta anche molte materie prime alimentari. Il WTI (a quota 85$) è in ripiegamento da tempo, anche per le vendite di riserve strategiche da parte degli USA decise da Biden a fini anche elettorali. L’oro, pericolosamente sotto quota 1.700 soffre per la salita dei tassi reali. Il cambio EUR-USD, al di là di tutti i movimenti intermarket, pare aver trovato equilibrio a quota 1. Negative le criptovalute a causa del clima da risk-off.

Fonte: ufficio studi Consultique SpA

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