I mercati cercano un minimo di stabilizzazione dopo un febbraio particolarmente ostico da digerire, con poche asset class capaci di resistere in un contesto dove, come già raccontato, i timori per una inflazione poco gestibile si sono fatti certamente più marcati.

Più che altro, il nervosismo (e anche il ri-prezzaggio delle attività finanziarie) si è concretizzato per la conseguenza principale che ne deriva, ossia livelli più alti di tassi di interesse decisi dalle banche centrali ma anche più lunghe tempistiche di ‘smaltimento’ della cura necessaria. Nel mese di febbraio appena concluso l’azionario globale, dopo alcune prime sedute promettenti, ha lasciato sul terreno, infatti, il 2,5% ma con distinguo rilevanti: S&P 500 -2,5%, Nasdaq invariato (ma era partito forte nei primi giorni), Europa ancora in tono positivo e Cina invece in forte deprezzamento (-11%). Poche soddisfazioni anche dall’ambito bond, con passivi tra il -2% e -2,5% per governativi e corporate (sia zona Euro che USD). Negative anche le commodities (quasi -3% il basket generale) con il solo Dollaro USA capace di rappresentare una valvola di sfogo a questi movimenti (+2,8%). È soprattutto il riposizionamento della Fed in senso restrittivo a determinare questi movimenti intermarket, che ancora una volta legano insieme azionario e obbligazionario, sostanzialmente il leitmotiv del 2022. Un 2023 diverso poteva sembrare possibile vedendo le prima settimane di gennaio ma l’inflazione ha rovinato i piani agli investitori più ottimisti che ora si leccano un po' le ferite e guardano avanti navigando un po' a vista. L’aspetto positivo, se in qualche modo non si vuol perdere uno spirito costruttivo, è che ora la disillusione è nei prezzi, anche se questo non toglie di torno le nubi nel cielo finanziario. Aleggia con probabilità un meteo ancora incerto, con i mercati che riprovano ora a ripartire o quantomeno a sedimentare nei loro pensieri.

La settimana macro ha affrontato ancora una volta il tema dell’inflazione, con i dati in uscita soprattutto sul fronte europeo. Da dire che le ultime due settimane avevano già in qualche modo preparato il terreno delle attese, con gli operatori che hanno compreso che la bestia inflattiva richiederà da un lato manovre più energiche da parte delle banche centrali e dall’altro anche più tempo, con un grado di incertezza persistente. Il ricordo delle battaglie di Paul Volcker di inizio anni ’80 facilitano il compito in questo, anche vedendo quanto uscito in settimana nella zona Euro. Se le banche centrali guardano ai dati, come da loro dichiarato, certamente non farà piacere assistere agli indici dei prezzi al consumo ancora su livelli elevati: Italia +9,2% anno su anno (e +0,3% mensile) e zona Euro +9,9% anno su anno (e +0,2% mensile), tutti dati ben al di sopra di quanto atteso, specie nell’aggregato zona Euro dove addirittura si pensava (sperava) in un calo. Gli aspetti positivi arrivano dalla Cina (nonostante il calo delle borse di febbraio dopo il rally di inizio anno) dove il ciclo pare poter avere una spinta in positivo nei prossimi mesi, a beneficio dell’economia globale (ma anche dell’inflazione, a rigor di logica). La resilienza dell’inflazione è palpabile in tutta l’Eurozona (anche Spagna e Francia), a conferma di un movimento abbastanza uniforme per il mese di gennaio.

In questo contesto complicato le borse comprendono che l’inflazione fa male, come è ovvio, ma anche che è segnale di un ciclo che rimane ‘vivo’ nella sua spinta. Occorre mettere in evidenza due cose che gli operatori soppesano talvolta con ‘bilance’ differenti: dovranno vedere le banche centrali attive e dovranno poi probabilmente fare i conti con un rallentamento che potrebbe essere più meno gentile nella seconda parte dell’anno. Gli utili vengono stimati in contrazione momentanea ma poi in ripresa per il resto del 2023, una magia di Jerome Powell? L’indice S&P 500 (+2% in settimana), navigando a vista nel breve termine, trova i supporti e per ora mantiene, se pur con fatica, alcune soglie critiche (area 3.950), utili a scongiurare una rivisitazione dell’ambiente ostile di fine dicembre quando l’indice americano si avventurò verso quel minimo di periodo a 3.800 punti che rappresenta l’ultimo appiglio prima di buttare a mare anche il 2023.

Servirebbe, quindi, non solo la tenuta dei livelli, ma anche una qualche forma di pseudo accumulazione, paziente e regolare a fronte però di mercati che hanno tutto tranne che proprio la pazienza. Mancano probabilmente i trigger immediati per scivolare al ribasso (la recessione che pareva imminente è stata momentaneamente allontanata) ma anche per pensare a mirabolanti recuperi, visto che le incertezze attuali poco consentono di avventurarsi in voli pindarici troppo in quota. Ne consegue un trend in laterale, spesso contradditorio e umorale, che coinvolge anche il Nasdaq (+2,2%), in close sopra area 12.000. L’ottava ha premiato anche l’Europa (+2,8%), capace di tenere lo scettro di best performer da inizio anno, mentre a livello settoriale ritorna forte denaro su Energy, Materials e Industriali, quando di più ciclico c’è sul listino. Deboli invece le utilities e in generale i difensivi. Bene gli indici cinesi che abbozzano un recupero dopo le recenti debacle. Tra i temi di mercato più toniche quelle legate a semiconduttori (e tech in generale), oltre ai comparti legati alle materie prime.

Il rilascio dei dati di inflazione ha ovviamente infiammato anche il comparto obbligazionario, che ha doverosamente prezzato un atteggiamento ancora più convinto delle banche centrali. Il tasso sui depositi nella zona Euro (ora al 2,50%) viene visto come top in area 4% sostanzialmente tra fine 2023 ed inizio 2024, con un ulteriore incremento proprio nelle ultime sedute. 150 punti base quindi di aumento nei prossimi meeting, che impegna la BCE molto più della FED, almeno in base alle stime di mercato. Per quanto riguarda, infatti, l’istituto guidato da Jerome Powell, vi potrebbe essere un top in area 5,50% (3 aumenti da 0,25%) per il mese di settembre circa, per poi vedere un calo solo nel corso della prima parte del 2024. Del tanto decantato pivot, insomma, non vi è più traccia e i mercati si sono riallineati alla retorica dei banchieri centrali. Tutto il tema del rallentamento economico resta in penombra, ma c’è da scommettere che prima o poi se ne riparlerà in quanto è difficile pensare che sul mercato del lavoro, sull’immobiliare e sui consumi non vi siano conseguenze sulla prova di forza di Fed e BCE.

Sul mercato, la crescita dei rendimenti è stata di impatto molto rilevante: nella zona Euro i governativi hanno visto uno shift verso l’alto degli yield di circa 20 basis point su tutta la curva. Il due anni tedesco ha sprintato verso il 3,20%, quello italiano addirittura al 3,70%, un trend iniziato nei primi giorni di febbraio con l’innalzamento complessivo di quasi 70 punti base. Il tasso decennale tedesco, rotta quota 2,50% (massimo di ottobre e fine dicembre) ha toccato un nuovo massimo al 2,75%, valore che non si vedeva dal 2011. Quanto agli USA, anche qui i tassi a breve restano tonici (area 5%) mentre il decennale ha rivisto il 4% (ultima volta a inizio novembre). Inevitabile quindi vedere segni meno anche per i corporate, oltre che per i governativi (EUR e USD).

In ambito materie prime, parziale recupero settimanale (+2,5%) che però non porta ancora il saldo annuale col segno più. Tornano gli acquisti su gas (+23%) dopo che il prezzo ha toccato dei minimi di periodo mentre il WTI si riavvicina agli 80$ (+4,4%) e soglia di resistenza degli ultimi mesi. Rimbalzo anche dei preziosi (oro +2,5%) dopo la batosta della scorsa settimana e dei metalli industriali (+2,6%), sembrati legati a doppio filo all’andamento cinese.

Per quanto riguarda le valute, la settimana ha visto il cambio Euro-Dollaro USA ondeggiare (1,06-1,07) senza particolare direzione, in attesa di maggiore direzionalità proveniente dalle banche centrali. Marginalmente però ha recuperato l’Euro, anche verso altri cross, dopo il rilascio dei dati di inflazione persistente nel Vecchio Continente.

Fonte: ufficio studi Consultique SpA

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